Il demansionamento: cos’è e come ci si difende

Definizione e norma di riferimento

Per demansionamento s’intende l’assegnazione al lavoratore subordinato, da parte del datore di lavoro, di mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza, con conseguente lesione della professionalità del suddetto.

La norma di riferimento è l’art. 2103 c.c., che disciplina il c.d. ius variandi datoriale, vale a dire il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni assegnate al lavoratore rispetto a quelle stabilite al momento della sua assunzione. Per regola generale, il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia acquisito o ancora a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

In altri termini, il datore di lavoro potrà legittimamente assegnare al lavoratore mansioni equivalenti o superiori, ma non mansioni inferiori.  Si esclude dunque, e per di più a pena di nullità di ogni patto contrario, la possibilità di demansionamento del lavoratore, anche con riguardo al caso in cui ciò sia stabilito per accordo tra le parti.

Deroghe ammesse dall’ordinamento

L’ordinamento consente alcune deroghe alla suddetta regola generale, segnatamente preordinate a tutelare il superiore interesse alla conservazione del posto di lavoro.

E’ così consentito adibire il lavoratore a mansioni inferiori:

  • quando sia divenuto inabile a seguito di un infortunio o di una malattia (legge n. 68/1999);
  • quando si tratti di lavoratrice in gravidanza, nell’ipotesi in cui le mansioni originariamente assegnate rientrino tra quelle a rischio o tra quelle interdette con riguardo allo stato della suddetta (d.lgs n. 151/2001);
  • quando lo prevedano accordi sindacali, purché si tratti di accordi stipulati nel corso delle procedure di mobilità volte ad evitare il licenziamento di lavoratori in esubero (legge n. 223/1991);
  • quando siano in atto processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, individuati sulla base di parametri predeterminati, entro limiti prestabiliti alla variazione dell’inquadramento del lavoratore (d.lgs n. 81/2015, c.d. Jobs Act).
La posizione della giurisprudenza

In giurisprudenza, in estrema sintesi, si è andato consolidando negli anni l’orientamento tendente ad escludere l’illegittimità del demansionamento nei casi in cui l’assegnazione di mansioni inferiori avvenga con il consenso del lavoratore ed in un contesto di crisi aziendale, in cui la misura risulti giustificata dalla necessità di scongiurare un altrimenti inevitabile licenziamento del lavoratore. In ogni caso, dovranno comunque essere mantenuti il livello di inquadramento e la retribuzione riconosciuti in precedenza.

Come ci si difende in caso di demansionamento

Qualora si ritenga di aver subìto un demansionamento, sarà necessario richiedere una consulenza specialistica, così da fugare ogni dubbio in proposito. Nell’esame del singolo caso, dovrà farsi riferimento alle mansioni da contratto, a quelle svolte dal lavoratore e al contratto collettivo di riferimento.

Valutata la ricorrenza effettiva di un caso di demansionamento, il lavoratore potrà rivolgersi al Tribunale del Lavoro territorialmente compentente, al quale potranno richiedersi:

  • la reintegra nella posizione precedente (o in una comunque ricompresa nella qualifica corretta);
  • in alternativa, l’accertamento della sussistenza di una giusta causa di recesso dal contratto di lavoro;
  • in ogni caso, il risarcimento dei danni tanto patrimoniali (ad esempio, la differenza di retribuzione maturata durante il demansionamento), quanto non patrimoniali (danni morali, stress psicologico, danno alla professionalità, e via dicendo).

 

diritto del lavoro avvocato Firenze

 

 

 

 

 

 

 

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